“Ciascuno cresce solo se sognato” – Danilo Dolci
I bambini sono sempre stati la parte pura dell’umanità, con il termine purezza si intende tutto ciò che è, letteralmente, incontaminato.
I bambini sono infatti assimilabili ai folli, non rispondendo alla regola basica del principio di “realtà e non contraddizione”, norma che permea ogni ambito della nostra società, decodificata da Platone e Aristotele, ma che noi tendiamo a sottovalutare.
Il “principio di realtà e non contraddizione” vuole che un oggetto abbia una funzione specifica “un bicchiere è un bicchiere e non altro”, per i bambini e per i folli non è così: tante volte una mamma toglie dalle mani di un bambino un bicchiere perché per lui potrebbe essere un’arma, un gioco, un cibo.
Questo rende l’infanzia pericolosa ma spuria: i bambini sono privi di sovrastrutture, ma anche loro prima o poi crescono acquisendo il pensiero della comunità che li circonda.
In antico, nelle società definibili ad organizzazione clanica o tribale, i bambini avevano un ruolo importantissimo. Si definivano come quel comparto sociale ancora inespresso ma già definito in maniera prodromica. Mi spiego meglio: ogni bambino nasceva da una famiglia e l’intera comunità sapeva già chi sarebbe diventato: un guerriero, una donna da dare in sposa a qualche comunità vicina o lontana per creare patti e alleanze e così via. In questo tipo di organizzazione l’aspettativa sociale sui bambini era altissima, per questo, molto probabilmente, venivano curati di più, allattati di più, seguiti di più.
Vi è però un inizio all’incedere di questa aspettativa. Considerando che il tasso di mortalità era ragionevolmente alto i bambini non entravano a far parte del gruppo sociale dalla nascita (o probabilmente non in maniera definitiva) ma ad un’età compresa tra i 3 e i 6 anni.
Se prendiamo ad esempio le comunità italiche che vivevano nel territorio della nostra regione tra il X e il VI sec. a.C. possiamo notare come le tombe dei bambini, sotto i 3 anni di età, nelle nostre grandi necropoli siano attestate con una incertezza basilare. Gli infanti (bambini tra i 0 e 3 anni) sono divisibili in due categorie: gli individui morti entro i primi mesi di vita, seppelliti dentro i coppi (simili a quelli usati ancora oggi come copertura per i tetti) dove troviamo una difficoltà nell’attestazione della fase cronologica non avendo loro quasi mai elementi di corredo. Ma da quei pochi oggetti rinvenuti, come ad esempio piccole fibule, possiamo dire che questo tipo di sepoltura possa essere datata tra fine del VII sec. a.C. e gli inizi del VI sec. a.C.
Il problema sorge con i bambini tra i 6 mesi e 3 anni di età poco attestati archeologicamente.
Ma in questo caso ci viene incontro l’antropologia fisica dicendoci che in questo specifico periodo la mortalità infantile diminuisce: i bambini superano il periodo critico dei primi mesi di vita e sono “protetti” dall’allattamento, condizione che finisce intorno ai 3 anni facendo impennare di nuovo il tasso di mortalità
Questo discorso ci riporta all’importanza dei bambini che riuscivano a superare una certa età: archeologicamente, tra i tre e i sei anni, i bambini mostrano dei corredi incredibilmente ricchi, sontuosi e belli, come l’esempio del corredo della tomba 550 di Fossa, dove un bambino si presenta ornato da due splendide fibule polimateriche in avorio e ambra, davvero tanto grandi e sontuose per il suo piccolo corpicino. Un lascito oneroso da parte della famiglia e della comunità: seppellire un bambino con un corredo così ricco lo fa importante non tanto per ciò che era al momento della morte ma per ciò che sarebbe stato.
Questa concezione del bambino che entra nella comunità come “potenziale” adulto è attestata anche nel possesso delle armi nei corredi dei maschietti. Delle volte armi vere e proprie (spesso in posizione non funzionale), altre volte si nota la presenza di parti di armi defunzionalizzate per creare “armi giocattolo”. Il bambino veniva accettato all’interno della comunità e iniziava quella che sarebbe stata la sua “carriera” e il suo ruolo sociale.
Nel V- IV sec. a.C. le cose cambiano, la società si fa più numerosa e complessa e i bambini sembrano morire di più: sì, perché in una società in cui si è tanti in una porzione di territorio unica come una città (sarebbe meglio definirla città-stato) si fanno più figli e si curano di meno.
I bambini perdono la loro importanza come futuri adulti perdendo l’adulto stesso importanza nella sua individualità. Ora la società si basa sulla produttività e la ridistribuzione.
Nelle necropoli osserviamo l’attestazione non più del valore guerriero dato dalle armi, ma dell’opulenza e dalla leziosità della vita slegata dai doveri e dal lavoro fisico data da pedine e dadi da gioco.
Sto riassumendo in maniera molto semplice questo passaggio, ma è per farvi capire come cambiando la società si cambiò anche la visione dell’infanzia. Non più corredi incredibilmente ricchi e belli fatti da oggetti personali e vasi interi per bere, ma piccole tazze per bere ottenute dalla defunzionalizzazione di fondi di crateri concepiti come coppette per il vino (a Campovalano).
Chiudo il discorso dicendo che, il valore dell’infanzia è dato dalla società: più una comunità è complessa e stratificata, meno i bambini avranno valore; più la società è semplice ma ricca e dominante, più darà valore ai suoi eredi.
È una storia vecchia come il mondo, il futuro è di chi viene curato ed amato.
Dott.ssa Andrea Di Giovanni