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Solo Bagaglio a mano

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Solo Bagaglio a mano

Per chi viaggia spesso ridurre al minimo il bagaglio è una specie di ossessione.

Ogni soluzione è buona: abiti che non hanno bisogno di stiratura, piccoli accessori multifunzioni, valige con scomparti e tasche per tenere tutto in ordine, flaconi e flaconcini per portarsi dietro solo la giusta quantità di cosmetici e chi più ne ha, più ne metta.

Tutto il resto verrà acquistato, consumato, noleggiato e usato sul posto, solo nelle quantità e per il tempo necessario.

È decisamente una soluzione intelligente che permette di evitare inutili zavorre, ridurre i costi e la fatica, limitare gli sprechi e la produzione di spazzatura.

Ma perché diventiamo così virtuosi solo in viaggio? E se mettessimo in atto la stessa strategia nella vita di tutti i giorni?

Ovviamente non mi riferisco solo agli oggetti, ma ai singoli comportamenti che derivano dalla nostra impostazione mentale (mindset, per quelli che parlano bene) e che definiscono la nostra zona di comfort (comfort zone, sempre per quelli di prima).

Immaginiamo per un attimo di ridurre la quantità di oggetti che possediamo in esclusiva, condividendo tutto ciò che usiamo saltuariamente e vediamo come potrebbe essere.

Qualcuno potrebbe dire: “e bravo! Ti sei appena inventato la sharing economy, peccato che è da un bel po’ che molte comunità la mettono in atto”.

Se il ragionamento finisse qui avrebbe perfettamente ragione, tuttavia non intendo limitarmi al concetto di condivisione, il quale contiene uno spirito di riduzione dei consumi, di produzione di spazzatura e di attenzione al benessere della comunità, per inoltrarmi in una visione molto più singolare ed egoistica dell’indipendenza emotiva.

E che c’entra? Per collegare queste due cose devi fare un salto triplo carpiato con avvitamento!

Sembrano due concetti lontani ma sono più vicini di quanto sembri e voglio provare a dimostrarlo, perché può aprire una discussione molto interessante sul valore dell’essere umano e della sua capacità di trovare o creare risorse grazie alla curiosità e alla creatività.

Per stappare una bottiglietta di birra basta una forchetta, un accendino e qualcuno ci riesce perfino con i denti, ma esistono un consistente e variegato numero di cavatappi adatti ad ogni situazione: da quello che fa da portachiavi fino a quello di design da sfoggiare nelle grandi occasioni.

Che facciamo? Stappiamo le bottigliette con i denti per raggiungere una sorta di estremo back to basic o lasciamo correre l’economia e la creatività disegnando e producendo cavatappi come se piovesse? 

Anche il più distratto dei menefreghisti concluderebbe che nessuna delle due soluzioni è praticabile: la prima perché è eccessivamente limitate e la seconda perché è insostenibile.

Ecco che arriva la soluzione della sharing economy a dirci che è meglio condividere il cavatappi.

Ma il solito menefreghista distratto, infastidito dal fatto che lo abbiamo messo in mezzo, direbbe: sì, ma quando mi serve di aprire una bottiglia a casa, che faccio, uso quello condominiale? Allora fate solo i tappi a vite e smettiamola di produrre cavatappi, mi sembra molto più sostenibile.

Per essere un menefreghista distratto è fin troppo attento.

In realtà siamo di fronte a un problema molto complesso e l’unica conclusione che possiamo trarre da questo ragionamento, almeno in chiave di sostenibilità, è che le soluzioni semplicistiche basate su opinioni personali sono del tutto inutili e fanno solo perdere tempo.

Se, però, ci spostiamo su un altro fronte la cosa è molto più interessante.

Lasciamo da parte gli oggetti e poniamo l’attenzione all’esperienza che facciamo con gli oggetti, a cosa ci accade, cosa ci rimane prima durante e dopo averli usati.

Potrei fare un lungo ragionamento per esprimere quanto sia più importante ciò che viviamo dallo strumento che ci permette di viverlo, (sai quanto ci sarebbe da dire sui metaversi?!) ma preferisco affidarmi a un tratto di un romanzo che ha segnato profondamente la mia vita e la mia struttura di valori.

Il libro è “E venne chiamata due cuori”- vi consiglio caldamente di leggerlo – e narra la storia di una giornalista americana che vive un’esperienza con degli aborigeni australiani.

Evito di spoilerare troppi dettagli a beneficio di chi vorrà leggerlo e mi concentro su un solo passaggio, dove durante la traversata di un deserto, la tribù si ferma, trova del cibo e festeggia costruendo un gioco e giocando insieme.

Al mattino successivo, prima di ripartire, il gioco viene smontato e i pezzi che erano serviti a costruirlo vengono rimessi al loro posto, al che la giornalista chiede come mai distruggessero un così bel gioco e non lo portassero con sé.

La risposta è del tutto geniale e, almeno a me, fa riflettere sul senso che diamo alle cose: per noi non è importante il gioco ma ciò che rimane dell’esperienza di aver giocato (non sono esattamente queste le parole ma il senso c’è).

Come al solito vi lascio con una domanda e non con una mia conclusione: per migliorare la nostra vita e quella delle nostre comunità, è meglio concentrarsi su cosa produciamo e in che quantità o su quale esperienza facciamo con quelle cose e su quanto ci rimane dentro?

Credo che anche il nostro amico menefreghista distratto sarà costretto a riflettere NON su cosa e quanto produrre, ma sul perché dovremmo produrre… oppure no.

Ezio Angelozzi 

Formatore e business coach

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