Formazione, innovazione e l’importanza del noi per gestire i cambiamenti epocali

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Ora che tutto è cambiato in seguito alla situazione di emergenza sanitaria, ci ritroviamo non semplicemente a gestire un cambiamento ma uno shock epocale. Il mondo, che ritroveremo tra qualche mese ma soprattutto tra un anno o due, sarà molto diverso da quello attuale e dobbiamo fin da ora attrezzarci per affrontarlo, sviluppando una visione strategica. La trasformazione economica, sociale e culturale, nonché quella tecnologica, inducono a avviare processi sostanziali di change management e a proporre un’offerta di servizi e prodotti innovativa. Le organizzazioni che sapranno affrontare questa trasformazione svilupperanno prodotti e servizi che necessitano di processi di cambiamento, di nuove strutture organizzative e di servizi innovativi, di competenze specifiche così come di profili professionali emergenti. E la formazione svolgerà una funzione essenziale se si vuole governare il cambiamento e presidiare le politiche pubbliche che saranno perseguite. La formazione, quindi, non semplice ancella della gestione del personale ma leva strategica per individuare nuove visioni, strategie e piani di azione per cittadini e imprese (Miccoli, 2018-Agenda digitale). In questo contesto di profonda trasformazione l’apprendimento si manifesta come uno dei principali strumenti per affrontare lo shock e provare a gestirlo. E il professionista dell’apprendimento deve a sua volta trasformare il paradigma, i modelli di lavoro, le pratiche. Proporre l’etichetta di professionista dell’apprendimento significa battersi per una figura professionale estremamente significativa per il nostro recente passato ma a questo punto soprattutto per il nostro prossimo e immediato futuro. Sono le macerie delle certezze granitiche che molti di noi hanno frapposto davanti a qualunque ipotesi di cambiamento, di comprensione del mondo e, perché no, di azione per renderlo un po’ migliore. Sono calcinacci, pezzi di muro, mozziconi di frasi autoreferenziali, di quelle che iniziano con “Io io io…” e finiscono nel nulla, brandelli di paraocchi che impedivano di guardare un po’ più in là. Perché questo strano dopoguerra senza una vera guerra (intendo di quelle con le bombe che cadono sulle persone e sulle case) è una Grande Dissonanza Cognitiva: un contrasto totale tra idee, ipotesi atteggiamenti, credenze e la realtà delle cose (perché la realtà esiste e ha la testa dura). E adesso? Cosa apprenderemo da questa esperienza che nessuno, ma proprio nessuno di noi, aveva messo in conto nella sua visione del futuro.


E i rapporti umani? Qui entra in gioco il secondo apprendimento importante…


Meno male che c’è internet e meno male che c’è il telefono, perché mai come adesso abbiamo bisogno, bisogno “fisico”, di sentire la presenza degli altri, la loro vicinanza, di guardarli (se possibile). Anche i più orsi tra noi riscoprono la loro natura di animali sociali.
Ma l’aspetto più importante è quello politico, nazionale e internazionale. Perché di fronte a una crisi mondiale nessuno si salva da solo. Di fronte a un virus che ignora le carte geografiche, le barriere invalicabili, i comprensori esclusivi, serve una risposta collettiva che i leader sovranisti non sono in grado neanche di pensare. La grande forza dell’uomo è la sua capacità di collaborare. Non siamo più i padroni del mondo. Non lo eravamo neanche prima, ma adesso ce ne siamo accorti davvero. Per capire la natura profonda del cambiamento dobbiamo fare un doppio salto indietro, all’origine dell’epoca moderna e all’origine della nostra vita individuale, perché è lì che si vedono all’opera i potenti motori dal comportamento e dell’organizzazione sociale. Perché il bambino di pochi mesi, all’alba della vita non è quell’innocente pargoletto che vediamo nella pubblicità: è tutto un ribollire di vita fantastica e di pulsioni potenti e senza limiti. Ce ne interessano due: l’avidità di una bocca smisurata che vuole ingoiare il mondo e la furiosa, paranoica, aggressione dell’estraneo. L’idea geniale del capitalismo è usare proprio l’avidità come motore dello sviluppo, al grido di “arricchitevi e lasciate fare alla grande mano invisibile del mercato”. Ammettiamolo: per un bel po’, la cosa ha funzionato, portando un progresso esplosivo, un benessere diffuso – almeno nella parte “giusta” del mondo – e l’idea di libertà individuale. E poi, come base sociale l’avidità è sempre meglio della paranoia che, eretta a sistema, porta al nazismo. L’onnipotenza che ci fa credere i padroni del mondo è la stessa del bambino di pochi mesi: non ha limiti interni. Quella che abbiamo creato è, però, una macchina dal motore potente senza sistemi di guida efficaci e con freni inadeguati. Impossibile elencare le storture dell’avidità fatta a sistema. La pretesa di crescere continuamente per produzione, vendite, ricavi, profitti, PIL. Il disprezzo dei beni comuni, che come tali non hanno valore. Da qui l’inquinamento, il depauperamento delle risorse naturali, il riscaldamento globale usiamo materiali indistruttibili per farne contenitori usa e getta, solo perché costano poco e lo smaltimento non rientra nel computo.

La svalutazione delle persone producono/posseggono/spendono denaro.  L’esaltazione della concorrenza, nonostante un intrinseco paradosso: la concorrenza è molto meno efficiente della cooperazione e della condivisione.  Il conflitto insanabile tra successo e regole, percepite come “lacci e lacciuoli” sono storture non casuali e non accessorie che oggi mettono in gioco la nostra stessa esistenza. Molti di noi ne erano consapevoli da tempo, ma gli effetti di queste storture avevano il difetto di essere troppo lenti per smuovere la maggior parte del genere umano.
Fino ad oggi questa pandemia, che ci  ha costretto alla prima Pasqua di reclusione, non è la fine del mondo: non è niente di fronte a quello che può accadere se non cambiamo rotta. Ma resta un’ammonizione severa, un cartellino giallo per l’umanità intera. Il coronavirus ci ricorda che l’avidità ha un limite. E, di conseguenza, che l’unica meta ragionevole non è crescere all’infinito, ma produrre meglio, distribuire in modo equilibrato le risorse, smettere di competere per iniziare a collaborare. Il nostro modo di lavorare, vivere e pensare è andato a sbattere contro un ostacolo e si è rotto. Uno shock, una dissonanza cognitiva, dicevamo. Ma come vanno a finire queste cose? Sappiamo che dopo la grande delusione, nessuna astronave e nemmeno un po’ di pioggia, i membri della setta se ne tornarono a casa a meno che non l’avessero già venduta. Poi in molti abbandonarono la setta e probabilmente hanno imparato a usare la testa. Per gli altri Dio in persona, vedendo una gran luce nell’universo ovvero loro stessi aveva deciso di sospendere il Diluvio, risparmiando loro la fatica di cambiare idea.  E noi, che faremo quando tutto questo sarà finito? Ci aggiusteremo le cose per continuare come prima o prenderemo al volo l’occasione di cambiare il mondo?

L’umanità nel tempo della pandemia è in preda a uno shock. Questo perché un microscopico virus ha svelato agli umani tutta la loro impermanenza. Ci ha resi da un giorno all’altro più insicuri e fragili. Qualcosa di simile era però accaduto già tre volte nel passato, quando giganti del pensiero quali Copernico, Darwin e Freud ci avevano privato della sensazione di essere padroni del creato e del nostro destino. D’un tratto ci siamo così resi conto di come la società globalizzata che abbiamo costruito si trovi di fronte a una minaccia esiziale per cause tanto naturali una natura, che tendevamo comunque a ritenere addomesticata e controllabile, si rivela più ostica di come la avevamo immaginata- quanto sociali -legate alla umana capacità di innovazione tecnologica ed economica e alla sete di potere delle superpotenze mondiali  L’attuale pandemia ha messo in evidenza, tra l’altro, la necessità di ripensare il passato anche come storia della specie sapiens in una relazione coevolutiva rispetto ad altre specie, in particolare ai parassiti che possono infettare e danneggiare l’uomo. Per iniziare  ad illustrare alcuni momenti significativi di questa storia coevolutiva, in particolare in relazione ai virus. I virus e i batteri hanno una storia più lunga di quella dell’uomo. L’uomo è comparso sul pianeta 4 milioni di anni fa, quando i virus e i batteri erano già presenti da due miliardi di anni, erano allora le più numerose forme di vita, i veri padroni della terra che hanno contribuito a determinare il clima, la geologia, la vita nel suo complesso. Per lungo tempo furono i nostri progenitori umani a doversi adattare sia ai microbi, spesso forse convivendo in un equilibrio evolutivo stabile, anche perché l’uomo viveva in piccole comunità. Dal momento in cui l’uomo ha iniziato a elaborare cultura, ha forgiato il pianeta e ha riorganizzato il mondo degli altri esseri viventi in funzione del suo dominio. La storia della domesticazione e della caccia rappresentano due modalità diverse di regolare il rapporto tra uomo e biosfera, due percorsi della coevoluzione che arrivano fino ad oggi.

L’epidemia attuale da coronavirus rappresenta l’altra faccia del dominio dell’uomo sulla natura, è la risposta della natura alla pretesa superiorità biologica dell’uomo. La pandemia di oggi per un verso si pone in continuità con la guerra infinita tra uomini e microbi, per un altro segna una cesura profonda perché agisce, per la prima volta e quindi in modo imprevedibile, in un pianeta iper-connesso e iper-tecnologico che l’uomo ha forgiato come non mai a sua misura. Da più parti viene ipotizzata una correlazione tra coronavirus e cambiamenti climatici, radicali trasformazioni dell’ambiente basti pensare alla deforestazione e inquinamento, evenienza naturale e conseguenza dell’Antropocene ossia incisive trasformazioni che la mano dell’uomo ha impresso sulla terra negli ultimi 10.000 anni di storia, tanto da far parlare gli scienziati di una nuova era chiamata “Antropocene”una fase nella scala geologica in cui l’uomo ha portato il pianeta oltre i suoi limiti naturali.

 Ci siamo trovati difronte al caso esemplare di un virus di una catastrofe determinata dal mancato controllo in sicurezza della tecnologia da parte dell’uomo. Un ipotesi che riporta la responsabilità all’uomo, tanto quanto quella dell’origine dalla devastazione ambientale. 

Conseguenzialmente un isolamento che ci ha portato ad allontanare il prossimo e vivere nella totale insicurezza dei profili dell’esistenza proteggendoci con una mascherina che diventerà la ragione di un maggiore confinamento dal mondo reale.

Quindi in realta’ abbiamo subito una metamorfosi come quella narrata di   Franz Kafka il protagonista e voce narrante Gregor Samsa che  si ritrova improvvisamente nel corpo di un enorme insetto, un uomo come Samsa, un commesso viaggiatore che vive con la propria famiglia, e  d’un tratto è  immerso in una condizione nuova: la diversità. La metamorfosi di Kafka ci trascina  nel tema dell’ auto emarginazione sociale, ciò che vive Gregor Samsa dal momento in cui si ritrova in un corpo che non è il suo, una lotta che affronta contro la difficoltà nel comunicare, nel muoversi, nel compiere azioni che prima per lui erano scontate, scoprendo all’improvviso una realtà completamente nuova  nella figura di Gregor quella dell’individuo che viene man mano escluso dalle dinamiche sociali. Un tema centrale al tempo di Kafka e ancor più attuale oggi, dato l’impatto enorme che la vita sociale ha nella  realtà., vediamo in Gregor  quindi solo un capro espiatorio, ma anche l’elemento che permette il compattarsi delle regole governative  intorno a un nemico comune. Partendo dal concetto che gli insetti sono in via di estinzione per realizzare in quale nuovo mondo ci troveremo e quale sia la via per la salvezza dovremmo seguire le loro linee di fuga.

Maria Ragionieri

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